22.11.2007
Intervista a Francesco Rosi
Retrospettiva su Francesco Rosi
Che cos'è fare un film? E' dare corpo a un'idea, mettere assieme frammenti di luce, di immagini, di concetti, di parole, di suoni. Ombre che diventano occhi, facce, persone, muri, case, strade, mare, piante, fiori, animali, cose ed esseri di un mondo che, racchiuso in un fotogramma, diventa vita. Le idee vengono fuori in tutti i modi e in ogni momento: mentre si cammina, mentre si mangia, mentre si fa l'amore, leggendo un libro, un giornale; guardandosi attorno, sentendo parlare gli altri, fantasticando, pescando nel ricordo, perdendosi nel sogno, ma anche volendo dire a tutti i costi qualcosa”.
Mai una dichiarazione sul cinema da parte di un autore fu più esauriente di questa. Sono parole rilasciate dal regista Francesco Rosi (classe 1922) in occasione della retrospettiva annuale “Primo piano sull'autore” di Assisi organizzata da Franco Mariotti, giunta alla ventiseiesima edizione e dedicata alla sua fortunata carriera.
Allievo di Visconti, quindi figlio adottivo del neorealismo, Francesco Rosi esordì nel 1958 con un'opera prima in cui era ben definita la sua predisposizione ad un cinema di impegno sociale che praticamente, salvo sporadiche circostanze, egli non avrebbe più abbandonato.
Un cinema in cui la costante ricerca della verità, di pari passo con un'originale e personale scelta di stile, inaugurò il film-inchiesta. Un cinegiornale in pellicola, ma senza l'ingombrante pretesa di opinioni o di schieramenti personali. Il cinema di Rosi non fu mai politico né polemico, toccò vette altissime raccontando l'Italia di quegli anni spesso abbracciando testi autorevoli (dal “Contesto” di Sciascia a “La tregua” di Primo Levi) e mettendo sempre al centro del racconto l'uomo. Perchè come affermava Sciascia: “una storia senza un uomo è come un sacco vuoto”.
Nell'aula magna dell'Università per Stranieri di Perugia, alla presenza di studenti e appassionati di cinema, ed in occasione del suo 85° compleanno il maestro si è soffermato sui suoi cinquant'anni di successi internazionali.
Maestro il suo cinema contribuisce a creare la storia, a diffondere informazioni sul nostro passato e a stimolare la coscienza. E' uno strumento di comunicazione incisivo. Qual'è la sua idea definitiva del linguaggio cinematografico?
Ho fatto fatica a scegliere un modo di fare cinema. Io sono napoletano, un uomo del sud, conosco bene la realtà storica della mia città. Napoli è stata attraversata da grandi avvenimenti storici, fra cui una miseria portata avanti attraverso le varie dominazioni straniere. Ha una storia molto complessa, come del resto tutto il meridione d'Italia. Solo che a differenza di Napoli, la Sicilia essendo un'isola ha una sua maggiore autonomia, un particolare riserbo. Napoli è anarchica, la Sicilia nella sua cultura in fondo lo è molto meno. Conosco anche la Puglia, la Calabria luoghi dove ho girato i miei film. Ho avuto il desiderio sin da giovanissimo di conoscere la storia dell'Italia meridionale attraverso quelli che sono stati i grandi contrasti storici. E ho analizzato a fondo la “questione meridionale”, studiata da uomini illustri come Giustino Fortunato, ovvero l'analisi delle condizioni per cui il meridione era sempre meno avanzato sia industrialmente che socialmente, conseguenze delle dominazioni cui facevo riferimento prima. La forte presenza di una classe popolare che ha trovato una sua individualità. Il lazzarone, l'uomo privo di coscienza civile deriva da questa problematica sociale. E oggi si avverte ancora questa presenza negativa che è un po' uno stereotipo, ma che fa parte della nostra tradizione. Queste cose le ho apprese a scuola ma le ho anche sperimentate attraverso il mio desiderio di conoscere i centri storici delle città meridionali, di calpestare quelle antiche strade. Ho scoperto tra l'altro che questi episodi hanno determinato la nostra storia attuale che viviamo faticosamente. Poi ho fatto diventare tutto questo la materia dei miei film. Il cinema per me rappresenta la nostra storia, senza ombra di dubbio. E' fondamentale però avere rispetto per la verità, non solo per la realtà. Quando si rispetta la verità il cinema può diventare un grande mezzo di insegnamento. Senza dubbio il più pratico, il più immediato.
“Salvatore Giuliano”, “Le mani sulla città” sono immediatamente successivi al neorealismo. All'epoca la critica definì stilisticamente il suo un “realismo epico”. Si riconosce nella valutazione della critica del tempo?
Il termine “realismo epico” fu adoperato in occasione di “Salvatore Giuliano” per la prima volta da Alberto Moravia che oltre ad essere un grande scrittore e poeta fu un acuto critico di cinema. Il racconto diventa epico perche' non si limita all'indagine sulla realtà di un settore o di una città o di una regione. Il mio racconto spazia, quindi credo che sia una definizione abbastanza giusta. Ho sempre cercato di allargare la mia osservazione della realtà per poterci entrare personalmente e per comunicare al pubblico quello che io avevo inteso a riguardo. La differenza fra questi due film è notevole. Per “Salvatore Giuliano” ho battuto la strada di chi non sa, di chi non conosce e quindi vuole avvicinarsi alla verità. Per “Le mani sulla città” ho battuto la strada di chi crede di sapere (quello che avviene all'interno del meccanismo burocratico) e vuole comunicarlo agli altri. Io ho voluto esprimere allo spettatore quello che credevo di sapere riguardo le occulte speculazioni edilizie nella mia città. Parlavo in questo film nel 1963 del “conflitto di interessi”: l'imprenditore corruttore e corrotto che riesce a diventare addirittura assessore per potersi dare licenze di costruzione. Direi, ma mi fermo qui, che e' un argomento molto attuale...
Perchè non ha fatto mai un film sulla Resistenza?
Io sono stato durante la guerra in clandestinità, mi sono dovuto nascondere poi per circa vent'anni, da quando ho cominciato a fare il regista con “La sfida”, ho avuto un'attività frenetica, facendo film uno dietro l'altro. Hanno richiesto molta fatica, molto studio e molta gioia. Avevo bisogno per questi lavori di una grande documentazione perche' non volevo correre il rischio di inciampare in una mia libera interpretazione. Ogni parte del mio racconto si basa su atti ufficiali, racconti autentici, perchè la prima cosa che faccio è documentarmi con cura. Poi ho dedicato al primo conflitto un film del 1970 che si chiamava “Uomini contro”, tratto da un bellissimo diario di guerra di Emilio Lossu. Resta tutt'ora uno degli ultimi film di guerra italiani. Subito dopo questo paese è stato teatro di un cambiamento distruttivo, più malefico della guerra stessa; il nostro paese ha dovuto sopportare il terrorismo. Il terrorismo che abbiamo avuto in Italia è durato addirittura vent'anni, in altre parti d'Europa molto meno e purtroppo ogni tanto rischiamo di assistere ad un'assurda ripresa, anche se limitata ad episodi molto circoscritti. In quegli anni il terrorismo si era affacciato nelle fabbriche, nelle scuole sia a destra che a sinistra. Era un terrorismo fuori d'ogni immaginazione. Penso a quei ragazzi che sulle scalinate delle università chiamavano per nome il loro professore per poi scaricargli un caricatore nella pancia. Allora ho ritenuto più stimolante per quanto mi riguardava avvicinarmi a questo problema e feci il film “Tre fratelli”, nel 1981. E qui ho espresso concetti riguardo all'emarginazione di uomini come Guido Rossa, che se avessero avuto la solidarietà dei compagni, probabilmente sarebbero ancora vivi.
Così come ho fatto dire ad un giudice: “non mi piace che si dica né con le br né con lo stato, bisogna dire contro le br con questo stato anche se sappiamo che poi il nostro obiettivo deve essere quello di cambiarlo comunque”.
Ma perchè il suo è definito un cinema-verità, visto che lei è il precursore del film-inchiesta?
Ho adoperato varie sollecitazioni stilistiche; ho riempito la forma del “documento” con la suggestione dell'ambiente. Da una parte certamente c'è questa voglia di avvicinarsi giornalisticamente ad una notizia; però trattandosi di una storia dovevo inserirla nella sua dimensione concreta, visiva che si serve di tante suggestioni contemporanee. Per questo in “Salvatore Giuliano” ho inserito la scena (molto faticosa) di una donna disperata, quasi da tragedia greca, che piange con veemenza la morte di questo bandito. Avrei potuto limitarmi al fatto di cronaca, ma non l'ho fatto. Senza passione non posso vivere; ho avuto una vita intensa e ho sempre dato molto peso alla passione. Non sono un freddo razionalista, la mia aspirazione è di comunicare senza trasciare altri aspetti.
Cosa ne pensa di questa assurda impennata di violenza soprattutto fra i giovani?
La violenza ormai si scatena dappertutto e non si possono fare distinzioni territoriali fra Nord e Sud.
Quello che è accaduto a Perugia non è diverso da crimini che avvengono in ogni parte del mondo, non bisogna generalizzare.
In definitiva è la cultura mediatica, ma non solo questa, ci porta ad una frenesia del vivere che ha sconvolto attività che riguardano la cultura, l'arte. In pochissimi anni abbiamo assistito ad un cambiamento radicale delle abitudini. Pertanto penso che bisognerebbe occuparsi molto dei bambini e della loro educazione. Facendo cononoscere loro delle storie che non siano violente, ma che siano educative. Una volta proposi addirittura a Napoli l'obbligo della frequenza scolastica anche nelle ore pomeridiane. Non volevo raddoppiare la fatica degli studi, mi bastava che i ragazzi si fossero concentrati in due sole materie: l'educazione civica e l'attività sportiva. Lo sport come lo intendo io è rigorosa disciplina, non si riduce al gioco del calcio che oggi vedo mortificato dagli interessi.
Assisi - Novembre 2007
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