13.09.2006
Intervista a Andrès Arce Maldonado
Caro Andrès come e quando è iniziata la tua storia personale e professionale con l’Italia?
Per quanto mi riguarda è iniziata quando sono nato. Mia madre era una sudamericana innamorata, ossessionata dall’Italia. Io la definisco un “Nando Moriconi” (il personaggio di Sordi che voleva a tutti i costi fare l’americano) al contrario. Appena è stato possibile è venuta a studiare in Italia e mi sono ritrovato qui.
Tu prima di approdare al lungometraggio, hai fatto una lunga esperienza con i “corti”. Quanto è necessario questo percorso formativo per un cineasta?
A mio parere i percorsi artistici sono tutti individuali ed unici. Orson Welles ad esempio è arrivato direttamente a fare “Quarto potere” senza girare nessun cortometraggio. Io ne ho dovuti girare trenta per fare il mio primo film per il grande schermo. Per il mio percorso, però, devo dire, è stato estremamente utile ed essenziale realizzarli. La mole di lavoro e di difficoltà che comporta fare un lungometraggio, tenere le redini di una situazione che in ogni secondo rischia di sfuggire di mano per il proprio arbitrio è durissimo. Se non ho la riserva mentale di pensare che per me ogni scena in realtà è un corto e quindi, la vivo giorno per giorno, non riuscirei a contenere tutto lo stress con il quale devo abitualmente convivere.
Ho visto un cortometraggio sulla guerra molto interessante, “Changing of guard”, cui hai preso parte. Mi è venuto in mente perché la tematica che affronta è tristemente attuale. Puoi parlarmi di questo lavoro?
Intanto volevo precisare che il corto non è solo mio; io sono attore, montatore, musicista e coautore. Parlerei di regia collettiva. La fotografia è di Mario Amura, uno di cui sentiremo parlare. E’ giovane, è bravissimo, è uno che si è integrato benissimo nel passaggio cinematografico dalla pellicola al digitale. Il messaggio di questo film è abbastanza evidente. Parla di un cambio della guardia, il passaggio di poteri durante un conflitto fra i soldati americani e i soldati dell’ONU. E’ solo un cambio di costume, in definitiva.
Mi hai parlato del digitale. Secondo te il lavoro del regista è agevolato utilizzando questa tecnica? Ritieni che sia economicamente e tecnicamente più vantaggiosa rispetto al tradizionale 35 millimetri?
La tecnologia ha un corso inarrestabile, come l’evoluzione biologica del resto. Nel cinema ogni invenzione tecnologica ha subordinato un linguaggio. Mi vengono in mente le differenze notevoli che si sono verificate in occasione del passaggio dal cinema muto al cinema sonoro. Fra digitale e pellicola non vedo differenze così radicali. Però è un salto storico per ragioni economiche e tecniche. Oggi con molti meno soldi si possono fare cose decenti, però se da un lato si acquista qualcosa, dall’altro si perde il sapore artigianale del vecchio cinema. E penso che sia un peccato. Però è sempre un rapporto fra dare e avere. Si guadagna dal punto di vista pratico e del linguaggio che sfrutta così nuove sfumature cromatiche, si perde dal punto di vista tradizionale. La pastosità che ti dà il digitale non te la dà la pellicola. E’ una cosa che ha una sua dignità e che ovviamente abbraccia un discorso generazionale che sto vivendo in prima persona. I vecchi “cinematografari” porteranno avanti i propri discorsi comunque. E’ una questione radicata forse nella capacità di apprendimento. Ma va bene anche così…
Ho visto un tuo bellissimo cortometraggio (“H Ombre”) che affronta un momento molto triste della vita del poeta Pablo Neruda. Quanto influiscono le tue cognizioni letterarie e filosofiche nel tuo lavoro? Le tue immagini sono dettate dai tuoi studi?
Siamo in piena lotta tra Estetica e Estesica. Cioè quanto l’idea primordiale del bello o del racconto sia predominante nei confronti della sensazione o dei mezzi che tu come regista utilizzi per creare emozione. Ad un certo punto della mia vita ho iniziato a pensare che sentire fosse più importante che capire. Quindi ho abbandonato i miei studi di filosofia e tutto quello che mi appassionava intellettualmente e ho iniziato a vivere l’arte nella maniera più fisica possibile. Ho iniziato a fare l’attore, a fare musica, stare su un palcoscenico mi ha aiutato a lavorare sui linguaggi, gli strumenti dell’arte in prima persona. Sono linguaggi che si sfiorano e si toccano perché hanno come la luce stessa una frequenza, una lunghezza d’onda. Faccio il confronto fra il racconto e la musica; ci sono dei meccanismi uguali in entrambe le forme d’arte: c’è l’armonia. Per me è fondamentale avere esperienze singolarmente in diversi campi per poi fonderli nel calderone cinematografico. L’altro giorno ad esempio in conferenza ho detto “L’essenziale è visibile agli occhi, il compito del regista è riuscire a plasmare quella materia che è invisibile, inodore ma crea nello spettatore una sensazione fisica”. Il mio lavoro si concentra essenzialmente in questo grande sforzo.
Torniamo al cinema. Tutto il mondo si esprime attraverso questa forma d’arte. Quali modelli ti hanno ispirato o quali modelli ti rivolgi?
Secondo me l’arte non può essere ridotta ad una nazionalità. E’ un fenomeno umano, in quanto tale universale. In alcuni paesi il cinema per ragioni economiche si è sviluppato in una certa maniera, in altri più sfortunati un po’ meno. In India ad esempio hanno sviluppato un’industria enorme con un cuore antichissimo. Una mistura fra opposti: innovazione e tradizione.
Il paese a mio avviso più interessante dal punto di vista cinematografico sono gli Stati Uniti perché è riuscito a fondere questi due aspetti senza separarli. Si è sviluppata un’espressione industriale del cinema ma è vivace anche quella underground, riferita al cinema d’autore, indipendente. Mi viene in mente un esempio recente: Darren Aronofsky e il suo “Teorema del delirio” o “Requiem for a dream”. E’ un autore indipendente che è stato assorbito dalle major cosa che si verifica spesso in America. Inoltre ci sono rassegne importanti come il Sundance (organizzato da Robert Redford) o il Tribeca Festival (organizzato da Robert De Niro) dove il cinema indipendente ha molto spazio. E questo nasce da un’apertura culturale perché l’America ha permesso a molti stranieri di fare cinema. Penso a John Woo o Robert Rodriguez che nascono come autori indipendenti ma hanno poi avuto l’opportunità di lavorare con grossi budget a disposizione.
Ma cosa ne pensi della prepotenza americana nelle sale? Ci sono film come “Superman” o “Mission impossible” che escono anche qui con una distribuzione forte, spesso togliendo spazio ai film d’autore. Come vedi questa cosa?
Io ho molto rispetto di questa industria cinematografica, guai a denigrarla. Fare un’inquadratura di un film come “Superman” non è certo un lavoro facile. Secondo me è cinema anche questo, molto più laborioso.
Parliamo ora di questo lungometraggio che stai realizzando da un mese in Puglia. “Bastardi” lo stai girando in 35 millimetri. Hai recuperato quindi la tradizione. In postproduzione inserirai inserti in digitale?
Le tecniche sono già mescolate nel senso che ho girato con la mia telecamera digitale che sarà integrata. Sarà funzionale al racconto, indicherà una dimensione diversa di qualche personaggio. Il digitale rappresenta i sogni o i ricordi. Se un giorno tu ti svegli come mi è capitato e mi si è spostato, scusami la metafora, un file dei sogni nella cartella dei ricordi e tu ti svegli credendo che un tuo sogno è stato un ricordo, si sfasa il concetto di realtà. La realtà è una linea labile, sottile che non solo si può spezzare, ma si può anche trafugare facilmente. Questo vorrei suggerirlo attraverso la tecnica digitale. Verrà fuori forse una cosa molto originale ed interessante.
Mi riallaccio al discorso sull’America che accoglie artisti. Tu ti ritrovi in questo film un cast internazionale. Questo comporta maggiori responsabilità o gli attori si lasciano plasmare dalla tua creatività?
Con tutta sincerità ed umiltà ti posso dire che io non ho diretto gli attori, loro hanno diretto me. Sono stati meravigliosi nel fare questo e nel mettersi a mia disposizione. Cosa posso dire a Barbara Bouchet, a Giannini, a Franco Nero o a Montesano? Loro hanno tanta esperienza e gli basta solo avere il copione fra le mani. A volte mi trovo in difficoltà perché non è necessario dare loro delle indicazioni. Quindi quasi sempre buona la prima…
Ci sono molti attori provenienti dalla televisione. Noti delle differenze nel dirigerli?
Chi fa la televisione è abituato ai tempi strettissimi. Normalmente non provano mai e non fanno un lavoro meticoloso sul testo. Sono diversi i meccanismi fra la televisione e il cinema. Questo mi ha molto aiutato perché trovo le star televisive molto allenate. Ho lavorato con persone di cuore che si sono aperte, mi hanno dato fiducia e mi hanno consentito di impostare il lavoro in tempi brevissimi attraverso i loro suggerimenti. Perché io penso che la verità è più probabile che ce l’abbia nel corpo un attore che deve muoversi in uno spazio che non io che penso idealmente come debbano muoversi in quello spazio. Io propongo una situazione, loro la approvano o con timidezza la discutono. A me piace creare un rapporto di questo tipo. Io metto un binario che deve trasportare una scena da un punto ad un altro. Il percorso pùo variare, l’importante è arrivare al capolinea, quindi il percorso attoriale lo scelgono loro.
“Bastardi” è un film girato prevalentemente in esterni, questo ti ha dato modo di stare a stretto contatto con gli abitanti dei luoghi in cui giri. E’ vero che al Sud c’è più calore, hai avuto modo di verificarlo sul set?
Io trovo questo calore dappertutto, ma credo perché io sono una persona molto calda. Quello che ricevo è pari a quello che dò. E’ una questione di punti di vista; ad esempio Milano è una città meridionale per uno di Parigi; così come Parigi è meridionale per un londinese. Si è sempre a sud di qualcuno. Certo ho trovato affetto anche in Scandinavia, perché non ammetterlo. Però devo dire il vero calore umano si respira in tutta l’Italia. Se dovessi scegliermi un posto in cui vivere, verrei a vivere sicuramente qui.
Sei un grande appassionato di musica. Ti piace ascoltarla, ma anche suonarla. Come consideri le nuove tecniche che ti portano la musica in tasca? Sei favorevole a questo compromesso da musicista credi che questo rompa un po’ le tradizioni e cioè che la musica va ascoltata nel silenzio di una stanza, con una buona acustica?
Le tradizioni, come leggi, nascono per essere infrante e quindi fanno parte dell’evoluzione inevitabile sia organica che tecnologica. La tecnologia non deve essere un fine, ma un mezzo. Se questo mi consente di portarmi addosso 15000 brani la considero una meraviglia. Mi piace molto l’Ipod, ci convivo. E’ un mezzo straordinario che ci spinge a ringraziare la tecnologia.
E cosa pensi della tecnologia applicata al cinema? Oggi ad esempio un film come il tuo un ragazzo può vederlo nel suo telefonino. Come commenti il tuo lavoro per il grande schermo ridotto nel palmo di una mano, credi che l’immagine si stia privando di dignità e che meriti comunque maggior rispetto?
Io penso che si acquista qualcosa e si perde qualcosa. Perdo la fruizione visiva, ma guadagno un ragazzo che senza un telefonino forse non avrebbe mai visto il mio film. Quindi paradossalmente dico che mi fa comunque piacere.
Progetti per il futuro?
Voglio andare in vacanza.
Trani, Settembre 2006
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