Piero Cicala (Emilio Solfrizzi), cantante pugliese di musica leggera tenuto a galla negli anni '80 in hit parade con un disco da 700000 copie, sembra un parente stretto del Tony Pisapia impresso nella memoria de "L'uomo in più", opera prima ispiratissima di Paolo Sorrentino (fortissime le analogie con l'incipit e l'epilogo di quella pellicola). Le copertine dei 45 giri appese alle pareti, rintanato nei ricordi, incazzato col successo che lo ha travolto, illuso e abbandonato, pasce ormai rassegnato nella ridente Savelletri dove si è lasciato andare dalla maledizione delle rughe e del sovrappeso. Ha investito quel poco che gli è rimasto nel "Polpo Re", un ristorante sul mare (di debiti), ma fare il cuoco per disperazione non gli basta per sopravvivere. La grande occasione gli si ripresenta e bussa alla porta. La tv di stato svende ricordi in prima serata: ricicla vecchi talenti sull'onda nostalgica del come eravamo. "I migliori anni della nostra vita" di Carlo Conti: format terribile, ma efficace. Conquistato dai soldi che gli servono per tirare avanti, Piero Cicala si rimette a nuovo, torna ad indossare quell'improbabile costume ricoperto da bottoni di madreperla, e sale in sella per cantare la canzoncina che fece la sua fortuna e la sua rovina. Accetta la sfida e si sottopone alla mascherata, passivo come sempre ma con la dignità dei reduci che non hanno dimenticato le ferite in battaglia (bellissima la sequenza in cui divide di nascosto timidamente una goccia del suo cachet con un clochard). Con aria triste, come un cane bastonato, smarrito nell'irriconoscibile mondo dello showbusiness, cerca di recuperare un briciolo della dignità perduta, accettando senza fiatare anche una improbabile storia d'amore, montata ad arte dalla cronaca scandalistica e gossippara, con la bella modella argentina Talita Cortès (Belèn Rodgriguez), risultato di un forzato rendezvous nella camera del lussuoso albergo romano che lo ospita. L'incontro casuale di queste due solitudini consentirà ad entrambi di superare le rispettive crisi. Un amore destinato a non nascere ma ad esplodere in una fondamentale e benefica amicizia che li proietterà verso una nuova esistenza.
Il cinema italiano torna finalmente a rivedere le stelle. Il buon film diretto da Eugenio Cappuccio controlla sapientemente un ispirato inizio di commedia, portandolo avanti senza cedere mai a bozzettismi o banalità alle quali purtroppo la tendenza recentemente ci ha un pò abituati. Da un'idea (non proprio freschissima) di Antonio Avati, che deve aver fiutato l'amarezza delle assurde operazioni "revival" organizzate da una cinica televisione, ecco la vicenda umana di un poveraccio tradito dal tempo, condizionato da un successo che lo ha baciato solo una volta. Straordinaria e condivisibile la scelta di Emilio Solfrizzi protagonista. Un attore amabile, bravissimo, capace di stupire attraverso una gestione attenta di pathos e sarcasmo. A parte l'anima buia del Pisapia cantante caduto in disgrazia del film di Sorrentino, in questo personaggio autentico e complesso si ritrovano echi lontani: qualche lampo del mai dimenticato Antonio Pietrangeli. Il povero Tognazzi costretto a ballare per soldi su un tavolo, fra l'imbarazzo e le risate cattive dei presenti, in quel capolavoro che ci appartiene che è "Io la conoscevo bene". Pescando nel torbido dell'amarezza e della nostalgia, requisiti essenziali nel realismo avatiano, il film offre spunti che vanno ben oltre l'effimera promessa di una locandina compiacente. Non è un film di ordinario intrattenimento domenicale e nemmeno si riduce ad una banale storia d'amore. In questa commedia di serie A, dove pur si segnalano comunque perdonabili sbavature (la poco incisiva trasferta americana), anche Belèn Rodriguez regala al pubblico sinceri sguardi d'attrice credibile. Un piccolo interessante assolo che sembra uscito da una partitura che avrebbe avuto l'approvazione di Risi e Monicelli. Gustosa commedia d'autore dove la tristezza in agguato ci aiuta a capire i danni provocati dalla popolarità, insegnandoci a ritrovare la nostra strada attraverso la dignità e il coraggio. Operazione onesta, incisiva, fuori dalle corde abituali di una commedia classica tendente al totale disimpegno e, di conseguenza, al desolante vuoto assoluto. Significativa, innocente e illuminante come lo sguardo acceso dalla fiamma dello stupore di Fabrizio Buonpastore: giovane, inesperto impresario traffichino che grana gli occhi davanti alla possibilità d'una nuova speranza.
Cinema Impero, Trani - 16 Aprile 2011 (Barisera) |