Stavolta sarà impresa dura per i seguaci del predicatore, assistere all'ultima bizarra sortita cinematografica del re degli ignoranti (come si è definitivo in uno dei suoi ultimi album). Gli esercenti incrociano inspiegabilmente quelle stesse braccia che in occasione dei precedenti ed opulenti periodi festivi erano tese in un caldo abbraccio, mentre le mani erano impegnate a strappare biglietti e a contare incassi. Con lodevole spirito di cronaca "Il messaggero" ha seguito le fasi salienti della scriteriata distribuzione di "Jackpot", film costato quasi diciotto miliardi e di fatto arrivato a Roma con la programmazione in appena due sale (l'Adriano e il Ritz), raggranellando le briciole con qualche milioncino. Da qui l'immediato trasferimento nelle sale di seconda col conseguente ritiro della pellicola in attesa di un restyling. Ma non basta: prima ancora che il film uscisse, è stato oggetto di uno spiacevole rimpallo fra l'iniziale tutela della Titanus e la strategia aziendale della Penta di Cecchi Gori e Berlusconi che puntava, forse, nella promozione di Celentano sulle reti Fininvest. Ciliegina sulla torta: piccoli screzi fra ideatori e realizzatori con grande presa di distanze dal prodotto, già di fatto predestinato al fiasco. Tuttavia non si può nemmeno parlare di "flop" inatteso, giacchè è stata preclusa agli spettatori la possibilità di ripensarci e valutarlo meglio. Sta di fatto che "Jackpot" è figlio di una gestione confusa e poco serena. Una pellicola che a dispetto del notevole dispendio di mezzi e del taglio internazionale, pecca di incompiutezza. E stupisce che a capo di questa avventura ci sia un navigato regista-produttore la cui oculatezza in fase realizzativa è stata spesso figlia di saggia previdenza. Mario Orfini vanta nel curriculum produzioni vincenti e qualche scommessa vinta con il cinema d'esportazione.
"Jackpot" è invece l'ennesimo tassello di una masochistica svalutation d'immagine portata avanti da un bravo cantante che sul grande schermo, dopo aver infranto tutti i record d'incassi, ora naviga irrimediabilmente a vista. Si ripetono ancora una volta i sermoni ecologisti sui mali del futuro e Celentano stavolta, attutendo le prediche, si rivolge ai più piccoli servendosi della favola moderna. E' lui infatti il maestro d'idiozia che un istituto di ricerche assolda per il benessere psichico di alcuni piccoli geni, che formano la giovanissima equipe per la ricerca di un farmaco capace di assicurare l'eterna giovinezza. La fondazione, comandata da un'ultraottantenne dall'aspetto incredibilmente giovane, rischia la chiusura. Furio Balestra (A.Celentano), come il protagonista impersonato da Sellers nel film di Ashby è un giardiniere con molta fantasia e amore per le cose semplici, guida i piccoli scienziati attraverso lezioni di idiozia. In un finale in debito con "Hook", "Ritorno al futuro" grazie al cielo la purezza trionferà sui diabolici artifici in nome del progresso e del dio denaro.
Se il re si esibisce in un repertorio inedito ma curioso (espressioni infantili, balletti scialbi e una risatella alla Eddie Murphy), i marmocchi complicano ed appesantiscono la visione. Celentano non è mai stato così lontano e così vicino da Jerry Lewis come in questa occasione. Mossette, balletti e stramberie tanto per mantenere la cifra celentanesca. Nel gruppetto dei goonies dal cervello fino si segnala, se non altro per la tenerezza di una inconfondibile dizione palermitana, il piccolo Totò Cascio con la giacchetta da scienziato, ma non è un espediente azzeccato. Gli effetti speciali, insoliti per il cinema italiano, aggiungono pochissimo mordente però costituiscono una novità. E la bella e complicata sequenza dell'ottovolante che attraversa le stazioni dell'esistenza si ritrova qualche timido omaggio alla montagna russa dei ricordi della felliniana "Città delle donne". Ma il re è ancora sotto il micidiale effetto "Joan Lui" e il Natale rappresenta un momento cruciale, su cui porre immediati ripensamenti. Coinvolti marpioni ed eccellenze: dal Giorgio Moroder che ha fatto un onesto lavoro musicale a Christopher Lee nei panni di un maggiordomo stravagante senza denti aguzzi, per finire con un Luciano Tovoli che fa il diavolo a quattro con la bellezza delle luci. Kate Verson, modella americana che sa recitare "anche con il volto", la ritroveremo presto nell'ultimo film di Spike Lee. Il bilancio è sufficiente ma il coraggio (come al solito Orfini quando si avventura in queste imprese è davvero un cavaliere solitario) non è ripagato dalla certezza di un appeal. Ed il titolo profetico, dal significato vincente, rischia di scontrarsi con la scarsa predisposizione del nostro pubblico tradizionale a cambiare abitudini cinematografiche.
VHS - Aprile 1993 |