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21.04.2012

13° FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO DI LECCE - I PREMI E LE MOTIVAZIONI

Si è conclusa a Lecce la tredicesima edizione, quest'anno particolarmente ricca e significativa, del festival del cinema europeo. Fra gli ospiti internazionali: Terry Gilliam (che ha presentato il corto "Wholly family") e Emir Kusturica (testimone di un bellissimo libro fotografico sul suo cinema, celebrato con una retrospettiva) hanno registrato una calorosa accoglienza di stampa e pubblico. Quest'anno il programma del festival prevedeva anche tributi a Ken Russell e Sergio Castellitto, al quale è stato dedicato il libro curato da Enrico Magrelli "Sergio Castellitto, senza arte ne parte" (ediz.Rubettino).

31.07.2011 - 18.08.2011

Sinfonie di Cinema 2011 – LA COMMEDIA NEL CINEMA ITALIANO

Anche quest’anno torna a Montefiore dell’Aso (AP) la magica atmosfera del festival “Sinfonie di cinema”.

GRANDE BELLEZZA (LA)

Regia: Paolo Sorrentino

Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Roberto Herlitzka, Galatea Ranzi, Isabella Ferrari

Durata: 2013'

Nazionalità: Italia/Francia 2013

Genere: drammatico

Stagione: 2012-2013

Capisco, ma non mi adeguo, verrebbe da dire. E già, perchè il grado di maturazione imposto da Paolo Sorrentino, alla sua sesta regia nonchè quinto concorso consecutivo a Cannes (l'esordio fu tenuto a battesimo a Venezia in una sezione collaterale), presuppone uno spettatore complice, predisposto, testimone volontario di un'autorialità che, se ben assecondata (magari da Medusa), non si pone confini. Omaggi, citazioni letterarie, cinematografiche, fatevi trovare preparati. Ma quel Fellini scomodato attraverso la minaccia di una "Dolce vita" reloaded è un piccolo affronto, che magari non gli appartiene, ma che ha fatto storcere un pò di musi prima che il suo monumento venisse svelato il giorno dell'inaugurazione (impeccabile, stavolta, il rispetto della contemporanea). Sorrentino, pur avventurandosi in territori pericolosi, comunque non si cura, guarda e passa aprendo la danza dei virtuosismi in cabina di regia con il cannone del Gianicolo che spara, forse, l'unico colpo sonoro della storia (un'inquadratura alla Argento de "Le cinque giornate"). La funambolica macchina da presa vola e si attorciglia sul fontanone celeste inquadrando, attraverso immagini di grande bellezza, la città eterna dall'alto. Un turista giapponese ci rimette la vita e non resiste alla magnificenza: viene prelevato dall'ambulanza. Una città per assurdo viva di giorno e funerea di notte con il microcosmo di borghesi ed altolocati riuniti in terrazza in volgari bagordi, ballerine sul cubo, il pezzo della Carrà a manetta e lustrini, gente che sniffa in cucina, trenini goliardici che "non portano da nessuna parte", solitudine alle stelle in un club di chiacchiericcio snob, soldi buttati dalla finestra con sotto il chirurgo plastico che li raccoglie (davanti al quale, proprio come nel "Roma" felliniano sfilano col numeretto tutti i pellegrini bisognosi dei miracoli al botox). Jep Gambardella (Toni Servillo), come il Marcello Rubini di cinquant'anni fa, assiste personalmente a questo sfacelo. Tuttologo di successo, mondano di professione, capitato a Roma negli anni d'oro, adesso non manca mai ad una serata vip, non sfugge mai alle lusinghe dell'apparire. Tra l'altro si diverte, da raffinato ed annoiato scrittore d'insuccesso (il suo unico romanzo scritto in età giovanile non si trova più), a mettere a nudo i difetti dei suoi amici falliti. Fra cui un aspirante attore (Carlo Verdone), che si mette in salvo tornandosene al paesello natio a respirare aria salubre. Il mondo decadente di Jep si svela fra lunghi convegni sulla sua terrazza davanti al Colosseo, le visite notturne ai palazzi nobiliari, il fugace e benefico incontro con la figlia (Sabrina Ferilli) di un suo caro amico di gioventù, nel quale Jep si illude di trovare un carico di speranza.

Strutturato come una sorta di lunga ed estenuante passeggiata accanto al protagonista dandy, ben impersonato da un Toni Servillo in forma (che parla in prima persona come il Totò esistenzialista a Capri in "Totò a colori"), a cui non giova stavolta l'abuso di una voce fuori campo con marcata cadenza campana, "La grande bellezza" è un affresco sorrentiniano che si perde fra ambizioni, citazioni e i virtuosismi d'autore che scivolano puntualmente davanti agli stessi ostacoli: l'assunzione di un atteggiamento critico ma complice, la visione di una Roma fatta di grandi palazzi, nobili decaduti, cardinali compiacenti che non tiene conto, appunto, del caotico, autentico mondo romano globalizzato (manca il traffico, mancano gli spazi alienanti) che rischia di apparire poco credibile. Un film decadente, insomma, con una città mortifera, purulenta, che sguazza e sopravvive specchiandosi nel suo glorioso passato (geniale la sequenza delle sedie dismesse nella casa dei nobili a noleggio) con cui il regista napoletano incastona l'epicentro dei nostri difetti e l'amarezza dei tempi bui, dove i nuovi mostri del jet-set sono quelli che hanno staccato la spina. La dimensione corale facilita la dispersione del racconto, a favore di inquadrature suggestive, carrelli che trasudano fascino e fatica, l'assetto sperimentale di un Sorrentino che, finalmente, può rinunciare alla narrazione in virtù di un'estetica a volte immobile. Nascono sequenze suggestive ad effetto come la giraffa nel foro, esterno notte, stormi di uccelli che si allineano con la striscia bianca di un aereo in volo, fenicotteri che transistano in veranda, il prete che si dondola in forma di "sceicco noir" sull'altalena in giardino, una suora misericordiosa centenaria, con il suo factotum portavoce (il mitico Dario Cantarelli). Molti volti teatrali (Herlitzka, De Francovich, Popolizio, Forte) sacrificati in partecipazioni marginali, alcuni (tipo la Ferrari) che spariscono dalla scena. Il dato di fatto è allarmante: non si riesce più a recuperare il cuore del Sorrentino de "L'uomo in più"; sembra distante anni luce quel film ispirato dalla passione e dalla voglia di raccontare senza dispendio di mezzi. Alla distanza "La grande bellezza" resta così un tentativo inizialmente lodevole, poi spocchioso, dove a volte l'autocompiacimento si realizza, come spesso avviene, con picchi di noia e dove gli spifferi di un pessimismo condizionato dalle basse temperature di una ricercata immoralità a comando gettano fastidiose ventate di aria gelida. Tra l'altro Sorrentino ha le spalle coperte da Umberto Contarello, mica da Ennio Flaiano. E "la solitudine del satiro". al momento, pare sia restato sullo scaffale a prendere polvere.

Uci Cinemas, Molfetta - 26 Maggio 2013

 

Voto:     2,5 / 5
Commenti al Film

Totale commenti: 1 - Pagina 1 di 1

baldassarre  -  28/05/2013 22:22:57

“Una grande bruttezza” l’ultimo film di Sorrentino che per rivisitare, in modo sgarbato, le magiche surreali poetiche trame felliniane, ha perso l’occasione per amplificare la vera bellezza di Roma, a favore di un racconto depressivo, ridandoci un’immagine superficiale e lontana dalla struggente bellezza dei luoghi, riuscendo perfino a mortificare la recitazione del normalmente bravo interprete, qui mono somatico.
Ciò che più mi intristisce è che il film sia stato scelto, unico italiano, a rappresentarci a Cannes, rendendo all’estero un’immagine sciatta e cialtrona della città più bella del mondo, come se non fossimo già abbastanza sputtanati oltralpe, grazie a chi ha governato e senza più sedersi, continua a governare questo disastrato paese …
Un conto è la storia di un singolo uomo, Andreotti che si ha fatto anche la storia d’Italia, ma un altro è screditare una intera città, madre e puttana certo, da più di duemila anni,  che nella  visione del regista paga a caro prezzo il malcostume sociale, ma  che vivaddio, di bellezza ai nostri occhi e a quelli meno abituati e più attenti degli stranieri non gliene toglie neanche un tramonto …
Si può essere ricchi e anche annoiati, non per questo vuoti e sciatti; lo stereotipo di una middle class rampante e caciarona è stato ridato con esagerata ridondanza senza approfondire neanche tanto i personaggi del film, intorno al primo attore;
Nani e mignotte, non sono categorie di pensiero, ma solo condizioni e scelte di essere, qui usati solo per pura inestetica, volgarizzando e ridicolizzando , preti e principesse, che invero nella realtà possono baciare l’anello di un cardinale ma s’inchinano solo davanti al Papa.
 Ricordate l’incanto di Roma? Parlo del film di Fellini, ecco teniamoci quelle immagini con l’icona – cammeo di Nannarella che chiudeva il sipario; li si gli attori raccontano, nel mondo visionario felliniano, una Roma che, unica città al mondo, grande madre e puttana, genera i suoi figli restando matrona e padrona della sua immagine; ma la poetica non è acqua …
Nel film di Sorrentino neanche l’acqua, di piscina o di mare, riesce a rinfrescare un’ attimo l’atmosfera sporca, cupa e volgare che pervade la pellicola e tutto il racconto.
Se fosse un vero romano non avrebbe reso la storia -discreditando così l’immagine della città …. non ce n’era bisogno poi, e se proprio da buon cinematografaro avesse voluto sfruttare meglio le quinte naturali, lo avrebbe dovuto, potuto fare con  generosità e senza sforzi, alla faccia del direttore della fotografia.
Insomma un proscenio splendido mal colto, con burattini mediocri, che scimmiottano, restando in superficie, caratteri per altro non  fortemente romani nel senso popolare.
Sarà forse anche la malinconia che mi ha pervaso vedendo la casa che è stata per un felice periodo della mia famiglia, l’unica terrazza al mondo dalla quale si vede l’interno del Colosseo; altri tempi certo, altri livelli, altri ospiti … in quegli anni perfino l’amaca, posizionata dove la vediamo nel film, era dipinta da Alexander Calder, ed ogni volta che ti affacciavi, la bellezza unica di quella vista, che nel film  si intravede senza enfasi ogni tanto, li dal vero ti toglieva il respiro, dall’alba al tramonto, trasportandoti nell’arancio sui i Fori Imperiali fino al Campidoglio …
In mezzo a tante caricature, trucchi e costumi esagerati tipo la mummia egizia della suora-santa, l’unico, vero e importante messaggio che resta è proprio la frase da lei pronunciata: “ la povertà non si racconta si vive”; ma sarebbe bastato andare a Calcutta per raccontarlo ….
Il suo film è come i citati ”treni che non portano da nessuna parte”, lascia solo un grande senso del nulla, una malinconia mortifera che invece a Roma è notoriamente  esorcizzata dal colore del cielo e dai magici tramonti, che ai bei tempi di quella splendida terrazza, si riflettevano su pannelli di rame!

Carlo Peruzzi

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